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Compito del medico e giudizio clinico

Nell’assumere decisioni mediche, sono almeno due gli aspetti chiave che vengono richiamati nell’esercizio professionale da parte del medico: la formulazione della diagnosi ed il giudizio clinico.

Ognuno di questi passaggi è sostenuto da cognizioni e scelte etiche che fanno della scienza medica una scienza applicata all’uomo e l’attività clinica un’attività umana in cui confluiscono le conoscenze scientifiche, la relazione medico-paziente rispettosa dei valori e dei principi etici aggiornati dallo sviluppo culturale della società di riferimento.

La formulazione della diagnosi possiede, in sé, un evidente aspetto razionale, studiato ampiamente negli ultimo decenni del ‘900. Ricordo in questo scritto, due degli studiosi più attivi: i Professori Scandellari e Federspil della Scuola di Semeiotica di Padova, Scuola di cui sono stato allievo negli Anni ’70. Oggi lo studio sembra essersi affievolito poiché il fenomeno della formulazione di un gran numero di “protocolli”, “flow charts” e “linee guida” ha, di fatto, soffocato la necessità di approfondire i risvolti della razionalità metodologica medica. Il medico è sempre più etero-guidato da comandi metodologici specifici che impattano sul suo modo di operare, per cui riveste scarso interesse per lui capire il reale modo di pensare del medico al letto del malato. La medicina è di fatto pragmatica, vede il sapere orientato all’agire in cui l’esperienza rimane prioritaria rispetto al momento di costruzione e ricostruzione razionale dell’inferenza medica. Se questo interessante piano di riflessione ha perso di smalto, il giudizio clinico gravato dalla necessità di operare continue scelte da parte del medico, è al centro di un cruciale dibattito in sanità, imperniato oggi sul rispetto per la dignità e l’autonomia del paziente. Il processo decisionale solleva infatti questioni che impattano i principi etici di beneficenza e giustizia, altri elementi costitutivi dei diritti fondamentali espressi nella Convenzione di Oviedo nel 1997. È proprio il principio di giustizia, imperniato sull’equità sociale e la solidarietà interumana nella ripartizione degli oneri, che pone al medico seri interrogativi nel momento in cui si trova a sacrificare l’ontologia del malato all’altare della generalizzazione operata dalla scienza e dall’economia che reclamano scelte appropriate.

Giovanni Federspil osservava che la necessità clinica e l’appropriatezza clinica sono del tutto intercambiabili ma tale affermazione, peraltro datata, rifletteva una visione paternalistica oggi superata. Proprio per questo, penso che si debba evitare che i comportamenti del medico e del paziente, soggetti di una relazione clinica, siano ridotti e sostituiti dai loro effetti strumentali per cui l’idea di giustizia che regola gli atti e le azioni sia, di fatto, sostituita con quella della rispondenza economica.

Per il malato non si tratterà più di avere ciò che è giusto che lui abbia in rapporto alle sue necessità cliniche ma, rispetto alle stesse necessità, di avere solo ciò che è economicamente giustificato o impartito paternalisticamente dalla scienza medica. Le politiche di razionamento, implicite ed esplicite che oggi sono applicate, sono sostanzialmente politiche di de-medicalizzazione senza che tuttavia siano sostituite da altre politiche per la salute.

A fronte della sempre più crescente onerosità della medicalizzazione, queste “ragioni tecniche” operano per demedicalizzare a fini economici almeno parte delle decisioni mediche.

Mi sento pertanto di fare un appello a tutti i colleghi, un appello a opporci al concetto di appropriatezza, nel significato oggi attribuito al termine, che tenta di amministrare lo scambio tra etica ed economia, tra necessità clinica e disponibilità delle risorse. Un appello perché le decisioni della cura siano sempre ispirate a tre principi chiave: di appropriatezza senz’altro, ma nel senso di pertinenza al singolo, di proporzionalità e consensualità.

Maurizio Benato