Biodiritto ed eutanasia

eutanasia

A cura di Maurizio Benato.

«È singolare che oggi si debba parlare di un diritto di morire quando da sempre ogni discorso sui diritti si è riferito a quello che è il più fondamentale di tutti: il diritto di vivere … A ragione la vita viene annoverata fra i diritti inalienabili … Comunemente si aspira a dei diritti per promuovere un bene, mentre la morte è considerata un male o, nella migliore delle ipotesi, qualcosa a cui bisogna rassegnarsi … Morendo noi non avanziamo alcuna pretesa nei confronti del mondo, ma al contrario rinunciamo a ogni possibile pretesa … ma come si configura la questione se in virtù di particolari circostanze il mio morire o non morire diventa oggetto di scelta?».

Ci sono almeno due chiavi di lettura antitetiche sotto il profilo morale del problema posto da Hans Jonas sulla liceità dell’eutanasia attiva; sono ben espresse dalle citazioni di seguito riportate:

• Ronald Myles Dworkin filosofo e giurista statunitense: “Far morire qualcuno con i mezzi che la società approva – ma che agli occhi dell’interessato rappresentano una terrificante negazione della vita – appare una forma di tirannia odiosa e devastante”.
• John Harris filosofo e docente di bioetica inglese: “Se il male insito nell’interrompere la vita finisce per fare del male alla persona cui la vita appartiene … allora l’eutanasia volontaria non sarà condannabile da questo punto di vista”.

La questione è ancora irrisolta e non è mia intenzione in queste poche righe entrare nel merito della questione “eutanasia si o eutanasia no”; mi limito da un punto di vista professionale medico a esaminare quella particolare forma di eutanasia che si presenta come un intervento diretto e attivo di un medico ( in Italia non lecito) volto per pietà a porre termine alla vita di una persona affetta da un male incurabile su sua richiesta. È questo il caso, per certi versi paradigmatico dell’eutanasia del malato che cosciente del decorso ormai irreversibile della sua malattia chiede, in piena lucidità, di morire con l’aggravio, come nel caso in discussione, che le decisioni appartengano ad un “minorenne consenziente”. Do per scontato, anche se non lo è certamente, che la scelta tra il dovere di vivere e il diritto di morire sia una scelta giustificabile sotto il profilo etico nelle condizioni in cui la malattia sia irreversibile e la morte segnata; mi soffermo su di un punto, che ritengo cruciale, ovvero che sia del tutto ovvio che questo atto commissivo spetti al solo medico e che la morte venga sistematicamente presa sotto tutela dalla classe medica. Il Codice di deontologia medica italiano è chiaro su questo versante. Se il problema viene posto su di un piano del diritto individuale di dignità del morire, non si può che concordare nel riconoscere il diritto del malato terminale al solo caso di non proseguire le cure.
In questi, purtroppo non rari casi, la decisione spetta non solo al medico, il quale combatte ad oltranza pur di strappare un brandello di vita, senza che ciò diventi accanimento terapeutico, ma soprattutto al paziente nella sua autonoma decisione dopo essere stato correttamente informato sulla patologia e sulla terapia proposta, cui può dare o negare il suo consenso.

A tal proposito gli articoli 13, 14 e 15 del Codice di deontologia medica intervengono chiaramente a definire la situazione; sono l’espressione di una medicina consapevole dei propri limiti, che, proprio dall’assunzione di questi suoi limiti, cerca le soluzioni più vicine al rispetto della dignità umana del vivere e del morire. Una cosa è riconoscere il diritto del malato a non sottoporsi ad una terapia, altra cosa è aiutare “attivamente” il malato a porre fine alla sua vita. Resta comunque da sciogliere il nodo eticoprofessionale se questa pratica può rientrare tra i doveri dell’ esercizio professionale medico nei paesi in cui l’eutanasia attiva è normata. Fermo restando la clausola di coscienza del medico ben espressa nel codice italiano all’articolo 22 e che è assoluta, quando un compito assegnato contrasti con i suoi principi morali, l’eutanasia attiva, a mio avviso, non può essere inclusa tout court tra le competenze professionali.
Quell’azione mortale per il paziente in quelle determinate condizioni e nella fattispecie nel caso di cui oggi si discute, mette infatti in gioco per il medico il fine intrinseco della sua professione.

Colgo già le obbiezioni. Da tempo i confini della professione medica si sono allargati sino a includere funzioni come l’interruzione di gravidanza, la contraccezione, la sterilizzazione per motivi non medici, il cambiamento di sesso, la chirurgia estetica ecc,ecc, che vanno ben oltre gli antichi compiti del guarire ed alleviare il dolore e pertanto la visione tradizionale dei doveri del medico è di fatto largamente superata.
Non mi soffermo su questo ampliamento di funzioni; ma mi chiedo: ammesso che i confini della medicina non siano netti e tracciati una volta per sempre, non viene forse meno l’idea stessa di un confine, di un limite, quando si sostiene che sia lecito per il medico uccidere su richiesta i propri pazienti?
Nell’eutanasia attiva il medico si trova di fronte al fatto nudo e crudo di uccidere un suo paziente senza speranza di guarigione e che glielo chieda con insistenza, non fa venir meno l’atto mortale che egli è chiamato a compiere.
L’idea che la professione medica si evolva nel tempo non solo nelle sue conoscenze ma anche nei suoi scopi dimostrando tutta la sua storicità, non deve necessariamente farci pensare ad un relativismo finalistico degli scopi della medicina. La medicina è saldamente ancorata al principio del “neminem laedere” ampliato dal dovere di prevenire o rimuovere un danno, un male altrui e, ancor più attivamente, nel dovere di procurare il bene. Non solo, ma la nostra ricca tradizione latina e mediterranea dell’etica delle virtù coinvolge più profondamente il medico, non lo lega all’aridità contrattualistica di un principio che appartiene maggiormente alla chiave interpretativa di matrice anglosassone, piuttosto valorizza la sua libertà e la coscienza del malato, prospetta per entrambi un reale universo di “bene morale”. E principi morali per il medico sono: il paziente stesso, la sua salute, il sollievo dalla sofferenza, la dignità della persona, la qualità e il rispetto della vita. La medicina pertanto si differenzia dalla manipolazione umana.
La “manipolabilità” dell’uomo ad opera dell’uomo stesso potrebbe spingere gli esseri umani a ritenere di non essere fini per se stessi, ma tali in quanto utilizzabili da altri esseri umani con conseguenze inimmaginabili. Il medico può spingersi a tanto senza sconvolgere completamente il senso della sua professione? Non lo penso, perché il senso della professione medica non viene meno anche se si esercita in condizioni contingenti. L’essenza non può che esprimersi nella contingenza ed è in questa che si esprime l’essenza parafrasando Martin Heidegger. Questa considerazione è senza dubbio filosofica ma penso che si possa adattare alla nostra discussione. Del resto questo vale anche per altre professioni: fallirebbe lo scopo della sua professione un giudice che non fosse imparziale.

Per i favorevoli all’eutanasia sciolta dai suoi riflessi sociali, ovvero eutanasia intesa come scelta consapevole e eticamente sostenibile di un malato terminale, si dovrebbe porre pertanto l’ulteriore problema di chi in concreto dovrà togliere la vita anche se dolcemente. Questo non significa l’estraneazione dal giudizio clinico di prognosi infausta da parte del medico, né dalla salvaguardia della correttezza della tecnica farmacologica, significa che il problema dell’eutanasia, se fosse giuridicamente contemplato anche nel nostro Paese, non si risolverebbe estendendo in modo indebito le funzioni del medico, ma richiederebbe una co-responsabilità diretta e attiva di quanti nella sfera intima familiare e amicale del paziente portano con lui il peso di questa estrema decisione. Il fatto che a voler morire sia un minore senza possibilità di guarigione e con l’assenso dei genitori o dei rappresentanti legali non muta il luogo del dramma, ma incide maggiormente sul ruolo dei protagonisti richiamandoli alla responsabilità del peso della loro scelta.

Fonte: BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n 3/2016